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INTERVISTA AL POETA

 

Prima parte. Domande di Salvatore Musumeci e Fabrizio D’Amico (in coppia).f

   

D. – Accingendoci a questa intervista , abbiamo pensato alle tante che lei ha fatto. E cominciamo quindi con la richiesta che lei voglia, delle tante, raccontarcene qualcuna.

 

R. – Niente di straordinario. Sono stati, ogni volta che è capitato, incontri cordiali con personaggi gradevoli. Non ho mai intervistato a caso. Andavo a trovare o a incontrare qualcuno che aveva suscitato la mia ammirazione e stima, spinto dalla curiosità di verificare personalmente la reale corrispondenza tra la convinzione che mi ero fatta leggendone le opere o resoconti sulla personalità. È stato così, per esempio, per tanti tra i miei primi incontri, con Eugenio Garin, poi con Nicola Abbagnano, sui cui testi di storia della filosofia avevo studiato. Quindi, in quegli stessi anni con Riccardo Bacchelli, che andai a trovare, dopo avergli chiesto appuntamento, nella sua casa in via Borgospesso a Milano; con Diego Valeri, col quale mantenevo una costante corrispondenza; con Mario Soldati che intervistai nel Danieli a Venezia, con Cesare Zavattini che andai a trovare a casa, come con Carlo Bo, con Marino Moretti. Interviste che venivano pubblicate subito e che poi ho messo insieme, sottraendole al precario dei fogli dei giornali o dei periodici, nel 1976, nel volume Testi e Testimonianze.

 

D. – Dal 1976 non ha più intervistato?

 

R. –   Non ho smesso di intervistare per soddisfare curiosità, quando se ne sono presentate occasioni. Ma da allora, rimangono sui fogli dei quotidiani o dei rotocalchi su cui sono apparse. Non ho più ripreso il proposito di pubblicarle in volume. Una eccezione è stata quella del resoconto dei miei confronti con Michele Pantaleone. Ma quella non la posso definire intervista, anche se l’intervista c’è stata come base di una ricerca che ho sviluppato lungo due anni, consultando atti processuali a Catanzaro, a Torino, a Palermo e altrove, sfogliando giornali, riviste, ascoltando ricordi e pareri di persone “informate sui fatti”. Per portare a termine il libro che mi ero imposto di scrivere, mi è capitato come nella storiella delle asine di Saul, che avendole ereditate e non sapendo in quale luogo preciso fossero,  era partìto per cercarle finendo col trovare tesori qua e là,  prima ancora di trovare le asine ereditate. Insomma le ricerche mi hanno arricchito di nuovo sapere, nel senso di conoscere risvolti, che probabilmente non avrei mai scoperto. La mia esperienza, che già era abbastanza solida dopo le inchieste che in Sicilia avevo svolto per conto di giornali e rotocalchi nazionali, sulla Sicilia e i siciliani e sui poteri della mafia e le sue raffinate metodologie, sul suo non troppo misterioso potere, sulla sua presenza nei gangli vitali di tutte le istituzioni, dall’Università ai supermercati, dai teatri ai tribunali e alle caserme, si è accresciuta. Non sto dicendo alcunché di nuovo. Lo so. Ma lo dico per insistere sulla particolarità della mia esperienza. Altro è leggere o essere informati su un fatto o su certi fatti, altro è viverli dopo averne letto, constatarne e palparne la consistenza, vedendo e ascoltando, raccogliendo quindi, e mettendo insieme elementi certi.

 

D. – Secondo queste sue parole la mafia sarebbe dovunque?

 

R. – La mafia è stata ed è dove c’è potere. Dove c’è da guadagnare, da sfruttare, da parassitare guadagnado bene.

 

D. – La letteratura non è potere, quindi  non è settore dove la mafia mette il naso?

 

R. – La letteratura è prestigio. E il prestigio è alla base di ogni potere. È proprio dalla particolare attenzione che la mafia dedica alle relazioni pubbliche, l’elemento che permette di individuare in certe “personalità” della cultura la loro sicura dipendenza dalla mafia. Il discredito di uno scrittore, di un artista, come quello di un professionista, quale si sia, non si sviluppa a caso. C’è chi lo semina. Poi lo spontaneo lievitare del passaparola fa il resto. La mafia lancia il sasso e i cerchi concentrici che partono dal punto in cui il sasso sprofonda, ubbidendo alla legge fisica, resterà invisibile. La mafia  non vi si vede, vi si trova e si trova cone effetto di una mossa intelligente.

 

D. – Lei definisce mossa intelligente quella che parte da un’azione mafiosa. Ma se la mafia fa schifo, come si può definirla intelligente?

 

R. – I due aspetti non sono tra loro incompatibili. Sono due facce di una sola medaglia. Facciamoci caso. Fa schifo alle persone oneste, e fa schifo proprio perché esito di programmi concepiti da intelligenze perverse, che studiano ambienti e soggetti e producono mezzi subdoli per assoggettare criminalmente, gli ambienti e i soggetti. Io non so chi abbia suggerito il manifesto che qualifica la mafia con la frase che mi avete testè ripetuto “La mafia fa schifo”. Non lo so chi abbia suggerito questa formula che ad analizzarla bene mi fa intuire aure impure, sospettabili. Non ritengo questo slogan molto efficace. Sembrerebbe l’applicazione di quel metodo politico del “parlatene anche male purché ne parliate!”

Ma torniamo alla intelligenza: vi faccio un piccolo esempio sulla straordinaria intelligenza della mafia. Un esempio inoppugnabile: secondo voi la mafia avrebbe potuto sopravvivere e addirittura proliferare lungo gli anni in progressione geometrica, se non fosse “animata” da una intelligenza superiore a quella di cui dispone tutta l’elefantiaca organizzazione che da un secolo e passa le si oppone rigenerandosi nel vano tentativo di azzerarla? Le complessità, le mosse giuste al momento giusto, le corruzioni appropriate presso Istituzioni e persone al di sopra di ogni sospetto, la puntualità delle risposte cruente a contrappasso di quanto sporadicamente essa subisce, sono forse comportamenti che difettano di intelligenza?

Mi potrei servire, paradossalmente, d’un altro esempio paradigmatico. Lo cito tuttavia, anche se solo per confermare la mia stima e fiducia nel Parlamento, che con questo mio esempio non c’entra, in quanto istituzione a sé stante. Ma mi serve come riferimento virtuale per provocare l’attenzione vostra. Ecco cosa propongo: ammesso per scontato che in un Parlamento eletto con voto da suffragio universale, siedano i legittimi rappresentanti dell’intera popolazione italiana. Orbene, come sono rappresentate – e si spera proporzionalmente – tutte le categorie sociali, dagli artigiani agli intellettuali, dai commercianti agli impiegati, così è altrettanto naturale che sia rappresentata la mafia. Orbene ci si rifiuterà di presumere che tale rappresentanza possa essere maggioranza. Ci mancherebbe! Sarà una rappresentanza sparutissima, una pattuglia, un piccolo nucleo ben mimetizzato. Ebbene, non bisognerà definire dotato di genialità straordinaria tale micronico gruppo -  per giunta invisibile, inidentificabile -  se esso, da solo e da insignificante forza numerica riesce a orientare l’intera legislazione, segnatamente quei settori della legislazione che interessano direttamente la mafia? Fate adesso, su questo esempio banale, qualche riflessione, chista è a zzita!

 

D. – Lei tende a buttarla tra il razionale e l’ironico. D’altra parte in coerenza col suo pensiero che colloca tutto sul Nulla. E allora parliamone pure di questo Nulla.

 

R. – Sarei il meno adatto a commentarlo. Se avete tempo e pazienza di leggere quanto ha scritto von Riedesel nelle pagine del suo Viaggio in Sicilia e a Malta (incunabolo, come tutti sappiamo, per molti altri aspetti, del più volgarizzato capitolo sulla Sicilia del Viaggio in Italia di Goethe), quando ha scritto particolarmente meditando sulle rovine di Siracusa, avrete già modo di prendere un aperitivo con la descrizione della onnipresenza del Nulla.

        Non posso escludere che di stimoli sul convenire a favore del Nulla generale, ce ne siano sotto gli occhi di tutti a ruotazione continua. Dipenderà, il poterli o saperli percepire, dal condizionamento personale – di ciascuno, intendo – dsll’orientamento religioso. Anche se proprio l’orientamento religioso tende a  nobilitare un’altra vita, quella successiva alla morte fisica dell’individuo. Il che è eloquente riferimento al Nulla dello stato di vita terreno.

Pronunciandosi casulamnet e spontaneamente sul “Mistero”, una giovane intelligenza, ha fatto subito riferimento a Dio e all’Amore aggiungedovi i fenomeni senza un mittente razionalmente raggiungibile e verificabile. Mistero può essere anche l’asserita presenza, mai provata di extraterrestri,e loro visite presso di noi.

          Il Nulla, caro Salvo e caro Frabrizio, ci assedia ma non pretende di convincerci. È discreto nel non competere con la speranza, o con la ingioiellata (di misteri) signora che fa dire alla saggezza pragmatica dei siciliani: “Cu di spranza campa, dispirato mori”.

E potrebbe essere anche vero, per cui sia meglio vivere arrendevolmente, puntando tutto sul Nulla, al di sotto del quale non c’è più alcun gradino. Il segreto, o uno dei segreti, per vivere in pace con se stessi,  potrebbe essere quello di prendere tutto in allegria. Aborrire gli immusonimenti, tanto,  le ore del buio non saranno più brevi o più lunghe in dipendenza dei nostri pessimismi.  Ottimismo, tanto, tutto avrà fine per ciascuno in questo mondo entro tempi che ragionevolmente non potranno superare certi limiti. Ed è già un passatempo divertente, anche se un po’ ridicolo, quello di strizzare cervelli in gara col tempo, comunque breve, al fine di allungare il periodo di permanenza dell’uomo tra le spire del Nulla, in onta a quanto splendore attende l’anima post mortem se vogliamo tacere del sollievo che ogni dipartita concede a chi segue per l’eredità o insegue per un odio, una vendetta, un rancore imprecisabile.

          È l’ipocrisia che salva la società.“Dal dì che nozze, tribunali e are diero alle umana belve esser pietose”,  ha suggerito Foscolo,  pare sia il pensiero l’onere più onere che il Nulla impone all’uomo curioso.

          Meglio evitare la curiosità, essa ci porta nell’antro del Nulla. Un antro, però, pieno di luci il Nulla è sempre illuminato a giorno, tanto che i curiosi, appunto, abbagliati, continuano a chiedersi da dove provenga tanto sfarzo. Non solo. Ma avete pensato alle falene, alle farfallette notturne che puntano sulla luce per finire con le ali bruciate. Quindi già morte? Mah!

 

D. – Lei così ci conduce in un labirinto illuminato ma senza uscite. Noi vorremmo capire, a questo punto, cosa pensa lei di Dio, della speranza, della vita…

 

R. – Va bene. Ma la mia è la verità di uno. Non è la verità. Io sono del parere che per continuare a sentirci in forma lungo il percorso verso la meta finale, ciascuno debba procurarsi qualche valore, qualche ideale, qualche pretesto, per schizofrenico che sia, al limite inventarselo. Il Nulla ha un suo percorso e per attraversarlo bisogna munirsi del carburante adatto e in quantità sufficiente. Questo carburante non si acquista all’esterno. È dentro di noi.

Cosa penso, voi mi chiedete, cosa penso della vita, di Dio, della speranza. Certo che le penso e  rivolgo grande rispetto a codeste somme categorie. Infatti ne penso tutto il bene possibile. Per quanto mi riguarda sono, intanto, assolutamente sottomesso sia alla volontà di Dio, sia alla imprevedibilità della vita. Sottomesso al punto di poter affermare, senza timori di smentita, che mi sento attaccato talmente alla vita da amarla, pur consapevole del tradimento che essa, fatalmente, mi riserva come compenso.

          Quanto a Dio e alla speranza, li considero endiade inscindibile. Vi confido che sono a ringraziarli a ogni risveglio e a ogni conclusione di giornata, perché mi elargiscono in ogni momento, loro e solo loro, una certezza suprema e inespugnabile, quella di capire che non c’è nulla da capire.

          So di essere stato catapultato, come esito d’una combinazione biologica, a figurante seduto a un tavolo da gioco e vi continuo a rappresentare la parte del giocatore, consapevole del fatto che chi gioca lo fa per vincere. Ci continuo a tentare ma senza barare. Aborrisco chi bara. Non potrei barare, non saprei barare. Forse la consapevolezza del Nulla? O l’essere nato in uno degli ultimi giorni di gennaio? I compagni di gioco sono mascherati, la sala non ha specchi e io non so quale maschera, a mia volta, mi è stata imposta. Continuo nel gioco, ogni tanto mi capita di cambiare di posto, ma resto allo stesso tavolo. Disapprovo il baro che mi sta accanto, e gli altri che intuisco, meno vicini ma percepibili. Una cosa, costoro da baranti, mi hanno aiutato a capire con il loro comportamento, mi hanno aiutato a capire la grandezza della misericordia di Dio, che non li punisce. Anzi, li agevola, perché tenta di far capire loro che qualsiasi vincita non potrà compensare la disistima che chi bara ha di se stesso, quando ricorre all’inganno, al broglio e all’imbroglio, al trucco e persino alla trappola, perché non ha stima nelle proprie capacità di affrontare a viso aperto, occhi negli occhi, il Nulla o la sorte che sia.

         Ma non vorrei sembrarvi volutamente critico o, peggio, reticente. Secondo me la presenza di Dio è nell’ordine dell’universo tangibile – ma non nel senso proposto da Spinoza, come in quello che essendo invisibile definitamo, appunto, come s’è detto, “Mistero”. Dio è vita e agevola questo concetto il pensiero affascinante di un autore che mi piace citare, Henry de Monterlant, quando afferma che il vero mistero  non è la morte ma la vita. La presenza di Dio (e dico presenza perché significa un po’ più di esistenza) è negata solo dagli egocentrici, perché gli egocentrici sono invidiosi e non accettano alcunché di quanto possa farli sentire più insetti che uomini – premesso che anche gli insetti sono creature di Dio -.

        Chi nega Dio lo fa perché prova incontenibile invidia per l’opera divina della creazione. Lo fa perché si sente menomato, perché gli viene inibito di potere dare a intendere che sia stato lui a creare l’armonia che regna in tutto l’universo. L’armonia che io con somma presunzione e in contraddizione con me stesso, definisco il Nulla, perché tale è tutto ciò che ci pullula attorno se non ci consente di spiegare la morte come fine di ogni nostra partecipazione a questa armonia di cui siamo temporaneamente componenti per sparire poi nel Nulla. Appunto e tornare nel Nulla cioè nella inesistenza antecedente, a sua volta, rispetto alla nascita. Ebbene il Nulla è paradossalmente il grande ludus divino. È nelle mani di Dio, il quale continua a modificarlo e a ripeterlo ed è già in questa meravigliosa sistole e diastole metafisica la risposta a chi nega la presenza di Dio e il Nulla che ci compone e scompone in effimere apparenze, perché solo Dio è immanenza e ricreazione. Allora possiamo affermare che siamo tutti, di volta in volta, noi, un momento della dimostrazione di Dio perché siamo la testimonianza del suo ludus di creazione e trasformazione incessante. Non mi cito per mero compiacimento ma per chiarire il significato dell’ultimo verso di Tra compiute lune: “un compasso sul nulla”. (Nessun riferimento alla simbologia massonica). È  la continua presenza della misura, dell’ordine, dell’armonia che sovrasta il Nulla, di tutto ciò che proprio perché tale la mano di Dio ricrea continuamente. Infine una precisazione che potrebbe far pensare a altra contraddizione. La fede. Mi ritengo uomo di fede. Altrimenti avrei evitato di rispondere alle vostre domande. Ma da uomo di fede ho fiducia nella vostra buonafede. Infine una dichiarazione che ritengo importante: noterete che nel rispondere alle vostre domande ho cercato di schivare la solita tentazione d’imbrodare con citazioni dotte. Non ho citato nemmeno l’onnipresente Nietzsche. Per un momento sono stato tentato di citare piuttosto Heidegger pensando alla sua adolescenza di chierichetto. Forse dal tenero piombo della sua infanzia-adolescenza sono scaturiti poi i suoi deragliamenti nazisti. Ma anche questa considerazione potrebbe confermare la mia convinzione sul Nulla.

 

D. – Una domanda di chiusura. Se rinascesse e potesse scegliere?

 

R. – Non mi so ambientare a pitagorico, quindi propongo la risposta a carico della vita che ho avuto in sorte e a come l’ho percorsa, finoa questo momento. A questa vita rivolgo un sincero applauso. È stata tutta e solo mia e non rinnego un solo momento di essa. Fosse per me non la tradirei mai. Sarà lei a tradirmi, ma quella volta non ci sarò più io e non ci sarà più nemmeno lei. È già questa consapevolezza che se no annulla il Nulla ne illustra in qualche modo la fatale presenza.

 

D. – L’amore. L’amore cos’è per lei?

 

R. – Senza amore non si vive, e non lo affermano solo i poeti. L’amore secondo me è anzitutto il divenire del mondo. È la creazione. È il profumo di una stagione che si prolunga attraverso i frutti pregni della fragranza impressa loro proprio dal fiore da cui derivano. La prerogativa più coerente dell’amore è a sua volta nel suo stretto legame col mistero, quindi col Nulla che si rinnova senza dare né chiedere spiegazioni. L’amore è divenire è il respiro del Nulla, il manifestarsi dell’endiade Dio- Speranza. Ma sarebbe un errore scambiarlo per carburante del genere necessario al percorso cui ho accennato prima in altra risposta. L’amore è il motore. Non si può scambiare il motore per carburante. Quando capita di farlo la vita si ferma dove capita, anche sotto un divieto di sosta.

 

SECONDA PARTE

 

Anna AscaniDomande di Anna Ascani( nella foto a sx ) e Daniela Saitta ( nella foto a dx ) (da singole)

 

(Anna Ascani): D. – Secondo lei che senso ha oggi, dove dominano frequentissime fughe dal presente e rumori invadenti, fare Poesia?

R. La tua domanda è un buon segno, perché conferma la reazione della sensibilità offesa delle nuovissime generazioni, quelle di oggi, e forse anche la loro solitudine che è poi quella del poeta. I più grandi, o per dirla senza eufemismi, i vecchi, negano la sensibilità delle generazioni più distanti dalla loro. E fanno male, sbagliano, perché l’uomo è un mortale/immortale, quindi non rappresenta solo se stesso ma soprattutto il tempo in cui vive. La poesia come ogni letteratura, come ogni espressione umana dello spirito, diciamo pure così, altro non è, come è ovvio e ben sappiamo, che il “commento alla vita, fatto dalla stessa vita” è la colonna sonora, o gestuale, o visiva del film che è ogni agire umano. Sappiamo anche che il fonema poesia viene giustificato dal verbo greco poieo, il verbo della creazione, dell’invenzione o, in senso tutto estensivo, della manipolazione.

        La tua domanda è già poesia perché dimostra una angoscia interiore, esterna un momento della tua ansia e del risentimento della tua sensibilità a confronto con un mondo di fughe e di frastuoni. E qui dirò cose che tutti sappiamo, questi nostri sono tempi in cui una trancia delle attività umane, una trancia che diventa ogni giorno più grande, quelle attività che fino a qualche decennio fa erano di esclusiva prerogativa umana, adesso sono prerogativa dei robot, dei computer, dell’elettronica in genere, in una sola parola della tecnologia d’avanguardia, che non esitiamo a ridefinire magia, aureolandola quindi di mistero. Ecco che la poesia, l’arte creativa che non può smentire la sua scaturigine umana, esprime spontaneamente la realtà della vita. Di tutta la vita. I più anziani possono sbigottirsi, ed è umano stupirsi, quindi continuare a esprimere un moto di ansia interiore, di agitazione, quindi di fare poesia. I più giovani vivono a loro volta con angoscia e disorientamento questo passaggio di civiltà che si presenta con l’umanità dimezzata, perché già metà di essa è governata dalla tecnica, la quale è velocità, è “nucleare”, è anche veleno e morte ma è comunque il risultato dell’opera dell’uomo, del progredire delle sue invenzioni e delle sue scelte quando trovano da sconfiggere i rigori fastidiosi delle stagioni ora fredde e ora calde con i caloriferi e con i refrigeranti o rimuovere la paura del buio con l’illuminazione elettrica o il bisogno di accelerare sui tempi di attuazione del proprio desiderio o bisogno, con voli intercontinentali. Ed ecco le centrali nucleari, ed ecco i computer, dico cose che sapete e sappiamo, ma guarda, cara Anna, che questa è la poesia dei nostri giorni dove e quando inquinamento fa rima con momento e dove non ha più senso la locuzione dantesca che una volta pretendeva di ammonire che “la fretta ogni virtù dismaga”, oggi la fretta è una divinità adorata in tutte le case, e anche stavolta possiamo dire sicuri di non sbagliare, che la fretta non dismaga ma appaga. Tornare indietro? Ma l’uomo dacché c’è mai è tornato indietro, specialmente a fronte di tutto ciò che è male, dalle guerre alle moltiplicazioni dei veleni, dai genocidi, e tanto per esemplificare tra passato remoto e prossimo, dalla strage degli Ugonotti nella notte di San Bartolomeo a quella degli ebrei ad Auschwitz e dintorni, dai genocidi dei buoni soldati italiani in Etiopia, l’altro ieri, a quelli remoti del passaggio di orde che poi ci hanno abituato a chiamare barbariche. L’uomo è una esemplificazione poetica del coccodrillo -  ma guarda un po’ dove si va a ficcare la poesia - , distrugge tutto e se stesso ma conserva costante la prerogativa di piangervi sopra, disponendosi alla siesta per smaltire i pesantori della digestione.      L’uomo ama mettere a ferro e fuoco le città del suo simile, fin da sempre e ama farlo, tanto è vero che egli stesso ha coniato la locuzione del “mettere a ferro e fuoco”, come la coniugazione dei verbi saccheggiare, uccidere, suicidarsi persino perché alla base di tante ragioni di cui qui abbiamo fugacemente accennato c’è un cupio dissolvi. Salvo poi a cantarlo, rappresentarlo, metterlo in versi, in musica, in bronzo, sulle scene.

      Comunque, parole più parole meno, la poesia è sempre una mano alzata che cerca la verità, la invoca anche se non vi crede. È, per dirla co la locuzione del poeta latino. Riproposta nel secolo scorso da Giuseppe Zagarrio come titolo di un suo repertorio di poeti italiani, Febbre Furore e Fiele. E finché ci sarà l’uomo questi elementi ci saranno. E tutto questo se non si vuole tener conto che la poesia è come l’acqua, è inarginabile e non è regolabile, viene fuori anche quando non si vuole o non la si aspetta, non viene fuori a comando, né perché siano i tempi a favorirne la manifestazione. In tempi di fughe e di frastuoni potrebbero fungere da rifugio e ricovero nella poesia.

Ma tu mi risponderesti che non solo di poesia vive l’uomo.

 

D. – Che valore ha per lei l'amicizia e quanto influisce sul suo linguaggio e, più in generale, sulla sua Arte?

 

R. – Direi che l’amicizia è la faccia pubblica dell’amore, deducendolo da quella usurata frase che esalta l’intimità dell’amore proclamando “amore e signoria non vogliono compagnia” . Ma è una sfumatura opinabile perché tante altre occasioni si manifestano ovvie nel dimostrare che la radice è unica per l’amore e l’amicizia, in quanto hanno in comune molti momenti, dal bisogno umano della compagnia, del confronto, del consiglio, proseguendo con quelli meno fisici della lealtà, dell’affetto, della solidarietà. Parenti ca non ti duna e amicu ca non ti presti fujli com’a pesti, dice un proverbio siciliano. Ed ecco già un canone di riconoscimento per l’amicizia, prestare, prestarsi, cioè solidarietà, affetto, fratellanza. Ma per non sfuggire all’essenza della tua domanda dirò che per me l’amicizia è conforto, è solidarietà e reciproca comprensione, ma con una condizione fondamentale: l’istintualità e la totale assenza del pattuire unioni di forze. Quando l’amicizia diventa alleanza acquista in forza, probabilmente, ma perde sicuramente in sentimento. In altre parole non si può scambiare l’amicia con la complicità né con il rispetto di patti. L’amicizia è una dedizione totale, appunto, così somigliante all’amore, e anche questo l’ho detto, da farci constatare come entrambi abbiano in comune la prerogativa discutibile ma straordinaria, misterica e meravigliosa di fare nascere il sentimento della gelosia. Si è gelosi di un amico o di una amica come si è gelosi,  anche se in misure e con pretese diverse,  delle persone di cui si è innamorati. Ed ecco l’aspetto delle reciproche dedizioni.

Può l’amicizia, mi chiedi, avere influenzato le mie scritture? Ritengo di sì per il semplice principio della letteratura come vita. La mia vita è stata ed è basata su relazioni di amicizia. Un esempio banalissimo potrebbe essere quello delle collaborazioni al Lunarionuovo degli anni Settanta, quando da Giuliano Gramigna a Peppo Pontiggia, da Calvino a Vittorio Sereni, da Leonardo Sciascia a Elio Bartolini mi giungevano collaborazioni a gratis di chi viveva anche col reddito economico delle proprie scritture, era, come ancora fino a oggi è, per altri nomi, da Stefano Lanuzza a Giuseppe Amoroso, a Tiziano Salari, Margherita Bai e Maristella Bonomo e il fraterno Gaetano Vincenzo Vicari tanto per citare nomi a caso tralasciandone tanti che meritano altrettanto, una concreta manifestazione di solidarietà disinteressata, di simpatia per prestazioni a gratis di lavoro professionale come dono, appunto, dell’amicizia. Sì, l’amicizia è il pilastro di tutta la mia vita di relazione. Essa mi consente di tirare le somme nei momenti dei bilanci potendo confrontare con la sua ossimoricità, col suo opposto, quello delle inimicizie, come a dire che tanto è il male che non mi nuoce quanto è il bene che non mi giova, infatti l’amicizia crea spontaneamente, automaticamente, il senso dell’appagamento, della virtuale indipendenza. La vita è sogno, e senza sognare non si può vivere e non certo per un omaggio emotivo a Calderon de la Barca ma in omaggio a quella parte che anima e che si serve del robot o del cellulare, perché il robot gli risparmia fatiche e tempi e il cellulare gli consente di raggiungere dovunque e in qualsiasi momento la persona con cui  vuol parlare. Ma né il robot può elargire un sorriso spontaneo come un dono, né il cellulare sostituirsi al calore che dà la viva voce dell’amico o il suo messaggio di saluto, di solidarietà, di augurio.

 Daniela

(Daniela Saitta) D. – Lei ha passato gli anni più floridi in luoghi fervidi di idee e riconoscimenti, personaggio tra i personaggi di allora (e di oggi). Perchè ha deciso di ritornare? Nostalgia, lotta o esilio? 

R. – Non voglio escludere che alla base dei miei rientri ci sia stato – e ci sia – il complesso della partenza senza ritorno. Il mio continuo viaggiare per il mondo può avere, in realtà, accelerato su tale paura subliminale. Non lo escluderei. Tuttavia, paura del non ritorno o altro d’imprecisabile, il fatto è, e resta, quello che io dalla Sicilia non mi sono mai allontanato psicologicamente, e forse per dirlo meglio non mi sono mai staccato. Né posso, a rigore, dire di avere pensato, programmato alcuna volta di farlo. Se qualche mugugnìo mi è scappato non esiterei a definirlo con l’usurato esempio degli innamorati, che litigano e alzano tra loto improvvise barriere di pesanti parole, di astratti propositi, con l’esito di riabbracciarsi e tornare subito dopo la lite più innamorati e uniti di prima. C’è un curioso detto siciliano che spiega molto sulla psicologia del profondo degli isolani: u sangu si po’ masticari ma non s’agghiutti. Un tema che ci impegnerebbe in direzioni analitiche, interminabili perché, ovviamente dilatabili, estensive. Nel caso del ritorno ai luoghi che definiamo nostri per nascita, per avervi non solo trascorso gli anni della spensieratezza, quanto in rapporto con costumi, tradizioni, affetti, suoni, odori e richiamo di elementi impalpabili, indescrivibili, esclusivamente subliminali, che possano condizionare una umana sensibilità fino alla patologia.

Si va dove ci porta il cuore e non dove ci conduce un treno, un aereo, un mulo o una barca.

Quando si arriva in un luogo non nostro, in quel luogo si è ospite di altri, di stranieri. Fin dall’antichità più remota di cui ci sono giunte testimonianze è esistito l’ospite. Sacro, gradito ma da catalogare come il pesce pescato, che dopo un giorno diffonde cattivo odore. L’ospite non è l’indigeno, non è il vicino di casa.

          Io non sono mai fuggito dalla Sicilia, nemmeno quando per certe mie scelte di coerenza civile e politica sono partito come per prendere una boccata d’aria, come per cambiare ambiente per un momento, per cambiare altrettanto momentaneamente indirizzo, come è stato per Acireale (un esempio) non sono mai fuggito e non sono mai stato escluso per volontà di qualcuno, mi sono sempre “dimesso volontariamente”, per mie scelte. Un comportamento dovuto, forse, a eccessiva arrendevolezza, forse a senso di consapevolezza. L’una ipoteso o l’altra includono il mio aver capito che l’unità di misura civile del territorio in cui sono nato e cresciuto è data da un osso che cade, uno solo e ogni tanto, per la fame di cento e più cani che se lo contendono, latrando, mordendosi, azzannandosi tra loro e persino scannandosi.

         Per esorcizzare i pericoli della canea in lotta per la sopravvivenza, bisogna rendersi autonomi e un modo per farlo, potrebbe essere quello di allontanarsi dall’osso delle contese, allontanarsi proprio nel momento in cui la zuffa è nel suo pieno. Escludersi per non finire scannati. O scannare altri. Certo una volta lontani non giungono i morsi e le dentate sulle carni ma i latrati non si può evitare di sentirli, nemmeno da grandi distanze, e a turarsi le orecchie. Ma i latrati non lasciano ferite fisiche. Disturbano, frastornano ma l’uomo è spiritualità, la sua forza non è quella fisica ma quella degli occhi e del pensiero, quella del sapere, se vogliamo aggiungere una provvidenziale propedeuticità agli occhi e al pensiero. No, non ho mai lasciato la Sicilia e se rinascessi e mi venisse offerta una opzione non esiterei a rispondere chidendo il bis.

 

D. –  Da quando la conosco non fa che esortarmi ad andar via. Perchè? Considera forse  un errore il suo ritorno nella terra dove nessuno risorge?

 

R. – Ci sarà sempre un più e un meno, cara Daniela, per tutto e per tutti. La mia presunzione, che, per quanto sostenuta da qualche nozione scientifica è sempre una presunzione, mi porta a valutare le personalità dei miei interlocutori. Sono stato sempre circondato da giovani intelligenze, dai tempi (anni Sessanta e Settanta) del Gruppo Ciclope ad Acireale a quelli del Gruppo Convergenze a Catania tra fine Novecento e primi anni del Duemila, e fino agli attuali Ebodamadari catanesi con voi. Tutto questo per non andare nei particolari dei coordinamenti delle riviste, da Lunarionuovo a Sicilia Illustrata, a Nell’Arte e nella Letteratura o alla Gazzetta dei Dialetti. E per non dire di quel punto di incontri e respingimenti che dal 1970 è Prova d’Autore, di cui sono lettore-consigliere.     Ebbene capita che io osservando colga il momento in cui una intelligenza creativa di prim’ordine si venga a trovare sullo scrimolo tra l’agone dei cento cani sull’unico osso e la possibilità di evitare l’impatto drammatico con la legittima gara a morsi e latrati. E come evitarlo se non saltando oltre la siepe?.

         Ti porto un esempio: quando avevo venti anni, o poco meno, scrivevo su fogli avventurosi della provincia etnea ma aspirando a poter scrivere sul grande quotidiano del territorio. Chiesi consiglio e aiuto a un amico più grande di me e già giornalista di valore, poi assurto a fasti extra provinciali ed extra regionali della sua categoria. Questi con una espressione tra il sarcasmo e il compatimento mi consigliò di togliermi dalla testa quel proposito. Proprio così, ed evito di riportare le testuali parole che non ho dimenticato. Una settimana dopo andai a Parma, all’avventura, da sconosciuto a trovare sconosciuti e chiesi di parlare con il direttore della Gazzetta di Parma che era quella volta Baldassarre Molossi. Dirai perché giusto Parma e la sua Gazzetta?e ti rispondo confidandoti che era uno stimolo romantico che mi veniva dalla storia di quell’antica testata e dall’avere proprio tale giornale, nell’immediato dopoguerra, aggiunto alla presenza del foglio della cronaca un inserto che venne chiamato Il Raccoglitore, nel quale convergevano scritture creative e di ricerca da intelligenze di tutto il mondo. Telefonai al direttore e mi rispose qualcuno della redazione e, fortuna o caso, me lo passò. Mi presentai chiedendo di poter essere ricevuto e mi convocò per quella stessa sera, alle ventidue, in direzione. Non dissi altro che il mio nome di ragazzo siciliano che presentava i compitini svolti sui fogli avventurosi del contado etneo. Molossi diede una scorsa a quei fogli che gli posai davanti, sul tavolo. Poi mi congedò con una stretta di mano e avendo chiamato un collaboratore mi affidò alle sue cure. Dopo due giorni apparve sulla Gazzetta di Parma il mio primo articolo.

        Dopo qualche mese incontrai, e questa volta a Catania, il giornalista dell’Unità Mario Passi, al quale diedi da leggere, al solito, un mio articoletto. Passi prese nota del mio indirizzo e del telefono (allora i cellulari non esistavano). Dopo una settimana mi telefonò Davide Lajolo e cominciò la mia collaborazione a Vie Nuove. Mi firmavo Rigo Mossara, che è anagramma del mio nome anagrafico e con altre sigle, a seconda del genere di intervento. Evito di raccontare qui qualche gratificante aneddoto legato alle mie collaborazioni al rotocalco Vie Nuove ma una voglio proprio raccontartela. Una mia inchiesta su certe marachelle catanesi fece scoppiare un piccolo scandalo politico e i papaveri di allora si chiedevano chi mai fosse il Rigo Mossara che aveva firmato quell’inchiesta. Fu convocato il solito giornalista nazionale al quale vennero chiesti lumi su chi poteva essere il Rigo Mossara, in realtà anagrafica e gli esposero l’ipotesi che poteva trattarsi di Mario Grasso. Al che il giornalista nazionale, (erano tempi di valorosi professionisti che si presentavano da fascisti a Catania e da socialisti a Milano), rispose che Mario Grasso non sarebbe stato nemmeno in grado di leggere su quel rotocalco, ben altro che lo scrivervi. Poi fu l’onorevole Domenico Macrì a fornire la chiave di tutto, informandosi con il suo collega parlamentare Davide Lajolo il quale gli certificò che si trattava proprio di Mario Grasso di Acireale.

       Da queste esperienze di vita vissuta, scaturisce la mia esortazione, cara Daniela, l’esortazione a uscire. Esortazione che, ovviamente, non  rivolgo a tutti, questo come primo principio. Secondo, uscire non significa partenza senza ritorno. A uno scalpellino della pietra non suggerirei di allontanarsi dalle cave etnee…

       Ti confermo quindi l’esortazione che ho continuato s rivolgerti da quando ti ho incontrata.  

 E questa esortazione fa parte della formula che può rivelarsi vincente, anche perché quando si rientra ci si sente soddisfatti e più disposti a rimboccarsi le maniche per dare una mano a chi tuttavia incerto se andare può essere istruito sui pericoli della canea sull’osso e su qualche via per scoriare sui tempi del salutare autoesilio dalla Sicilia che ha tanto bisogno di chi ha nostalgia e non vede l’ora di rientare e non ha proprio bisogno di coloro che dicono di essere fuggiti e che vantano il loro principio del cambiare marciapiedi tutte le volte che a Milano incontrano un siciliano